Nutrire Il Pianeta.. - Nuovo Progetto

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Nutrire Il Pianeta..

...una bella favola . A cura di Claudio Ciprandi P.O Rho

Quando questo numero del Giornalino arriverà nelle mani di noi lettori, forse, l’imponente baraccone di EXPO 2015 avrà già chiuso i battenti e sarà giunto il momento di trarne il bilancio. I suoi detrattori, chi lo ha contestato fin dal giorno dell’inaugurazione, avranno buone ragioni per confermare le proprie posizioni. Così come chi lo ha fortemente voluto, chi ci ha investito energie e alimentato illusioni, continuerà a considerarlo qualcosa di grandioso. Comunque la si pensi, sarà inevitabile per tutti continuare a fare i conti con la realtà fatta di milioni di esseri umani che dovranno ogni giorno convivere con la piaga della fame e con le contraddizioni che questa realtà porta con sé. “Nutrire il pianeta” continuerà ad essere una speranza, un sogno, un obiettivo lontano e la fame continuerà a manifestarsi come conseguenza di condizioni economiche disastrose o “effetto collaterale” di laceranti guerre. Continuerà ad accompagnare la fuga dalle dimensioni bibliche di uomini donne e bambini. Ma cos’è la fame?Per quanto paradossale possa sembrare, dare una risposta razionale, concreta a questa domanda non è così semplice. Un bel libro, bello nella sua drammaticità, prova ad aiutarci, il suo titolo è di una semplicità disarmante “La fame”, il suo autore si chiama Martin Caparros, uno scrittore argentino dal volto antico, con due baffoni a manubrio come si usava nell’ottocento, prima di occuparsi della fame aveva dato alle stampe un libro dedicato al cambiamento climatico nel quale anziché dare parola agli esperti, agli ambientalisti “di professione”, aveva fatto parlare gli ultimi, coloro che di questo cambiamento pagano lo scotto peggiore. Con lo stesso spirito, nel libro che mi permetto di consigliare, Caparros va a cercare la fame non nei dati statistici della FAO, ma tra coloro che la fame la vivono ogni giorno e che non possono nemmeno immaginare che possa esistere un posto al mondo dove della loro tragedia si riesca a parlare seduti ai tavoli di ristoranti imbanditi con ogni prelibatezza e dove il riso o il miglio, che costituiscono la totalità della loro dieta, possano diventare oggetti da “esporre universalmente”. La fame di Martin Caparros è edito da Einaudi e viene presentato in questo modo:
«Conosciamo la fame, siamo abituati alla fame: abbiamo fame due, tre volte al giorno. Nelle nostre vite non esiste niente che sia piú frequente, piú costante, piú presente della fame - e, al tempo stesso, per la maggior parte di noi, niente che sia piú lontano dalla fame vera». Per comprenderla, per raccontarla, Martín Caparrós ha viaggiato attraverso l'India, il Bangladesh, il Niger, il Kenya, il Sudan, il Madagascar, l'Argentina, gli Stati Uniti, la Spagna. Lí ha incontrato persone che, per diverse ragioni - siccità, povertà estrema, guerre, emarginazione - soffrono la fame. La fame è fatto delle loro storie, e delle storie di coloro che lavorano in condizioni molto precarie per mitigarla e di coloro che vi speculano sopra, affamando tanta gente. La fame intende, soprattutto, svelare i meccanismi che fanno sí che quasi un miliardo di persone non mangino quanto è necessario. Un prodotto ineludibile dell'ordine mondiale? Il frutto della pigrizia e dell'arretratezza? Un affare di pochi? Un problema in via di soluzione? Il fallimento di una civiltà? Un libro scomodo e appassionato, una cronaca che riflette e un saggio che racconta, un pamphlet che denuncia una vergogna intollerabile e cerca vie di uscita per eliminarla con urgenza.
Martin Caparros, ovviamente, ci colloca, noi abitanti di un paese “avanzato” economicamente, lontani dalla fame vera, è davvero difficile immaginare la nostra società attanagliata dalla fame eppure… Eppure ci fu un tempo, certo lontano, i cui anche nella ricca Europa si moriva di fame e in cui dalla fame si cercava di scappare in tutti i modi, anche con la fantasia. A ricordarcelo è una bella mostra, visitabile ancora fino all’11 ottobre, nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco di Milano, “Il mito del paese di Cuccagna. Immagini a stampa dalla Raccolta Bertarelli”. Bello, come la mostra, è il catalogo, edizioni ETS che si presenta in questo modo:
Il mito del Paese di Cuccagna risulta fra i temi iconografici più diffusi nella stampa a larga diffusione. Il sogno realizzato di un luogo immaginario dove sia proibito lavorare, l’ozio tradizionalmente considerato un vizio si trasformi in virtù, tutto sia consentito all’insegna della più ampia libertà, la terra elargisca i suoi frutti in abbondanza, è motivo ricorrente e diffuso nel tempo.
Fonti letterarie già a partire dal XIII secolo narrano di un simile paese ideale e dal XVI secolo fiorisce una produzione a stampa che spesso assume caratteristiche autonome rispetto al linguaggio testuale. Immagini che descrivono paesaggi aperti dove nei fiumi scorre il vino, dal cielo piovono capponi arrosto, gli asini si legano con salsicce, chi lavora è condotto in prigione e i medici sono banditi, addirittura una Cuccagna dedicata alle donne, dove gli uomini sono unicamente servitori. Questo vagheggiato mondo, a tratti eversivo, si svuota gradualmente di questo significato poiché la morale corrente mal sopporta che l’abbondanza ed il piacere non siano frutto del lavoro. Nell’Ottocento, il Paese di Cuccagna diventa così un espediente narrativo soprattutto destinato all’infanzia, che mostra come chi non si adegui ad un disciplinato comportamento guidato da regole e norme in cui dovere e lavoro risultino principi fondanti, sarà destinato ad una brutta fine, come Lucignolo nel Paese dei Balocchi.
Dalla ricca bibliografia, utilizzata dai curatori della mostra e del catalogo, Giovanna Mori e Andrea Perin, mi piacerebbe segnalare due libri preziosi per approfondire questo curioso argomento. Sono stati scritti entrambi da Piero Camporesi, uno storico, purtroppo scomparso da qualche anno, che ha dedicato la propria vita ad esplorare i margini della storia ufficiale e, come Caparros, ha sempre dato la parola agli ultimi.
Il primo, La terra e la luna, ristampato da Garzanti nel 2011 è presentato in questo modo:
Dai riti agrari ai fast food un viaggio nel ventre dell'Italia.
Dalle campagne e dalle mense contadine alle tavole borghesi, con le loro diverse liturgie, all'attuale contaminazione universale di modelli gastronomici. Dal paiolo che bolliva appeso alle catene del camino al focolare televisivo, dalle mitologie lunari e dal decollo della scienza galileana all'attuale scenario postagrario e postindustriale, La terra e la luna esplora zone ed epoche cruciali della storia alimentare. Raccontandoci di pane, vino, formaggi, ma anche di grassi e olii, delle cucine regionali e delle tecniche industriali di conservazione, per arrivare a paninoteche, insalatone e spezzatini di soia, Piero Camporesi ripercorre dall'Alto medioevo a oggi l'evoluzione dei rapporti della società con il cibo per individuare, nell'incessante interazione tra la concreta materialità dei processi fisiologici e la dimensione simbolica e culturale, le continuità e le fratture nel costume e nelle abitudini quotidiane degli italiani.
Del secondo, Il paese della fame, l’editore il Mulino nel 1985 diceva così:
Il ventre è il protagonista, reale e simbolico, di questo “paese della fame” che ha come attori e comparse schiere di pitocchi, vagabondi, birbanti, simulatori, ciarlatani, cantimbanchi, varia umanità degradata costretta a vivere ai margini della società “civile” facendo ricorso alle ingegnose, stupefacenti tecniche di sopravvivenza dei questuanti e degli affamati. Le strade, le piazze, le chiese, le osterie diventano gli spazi della rappresentazione d’un mondo opprimente, livido, subdolo, mascherato, il teatro d’una lurida e degradante commedia in cui la farsa grottesca nasconde una disperata tragedia sociale. Evocati dal desiderio di un altro mondo, i fantasmi di cuccagna, del carnevale, del sabba, dell’inferno-cucina, del gigante divoratore, endemici nei sogni compensativi dei diseredati e dei poveri, s’insinuano nelle fantasie degli intellettuali “aristocratici” innescando rappresentazioni di singolare suggestione. Continuando nella sua esplorazione dell’antistoria della storia e della cultura della fame, Piero Camporesi ricostruisce le mitologie carnevalesche e la demonologia delle culture agrarie; analizza le intricate meditazioni gastrologiche degli unti profeti dell’eccesso alimentare e l’amara “vis comica” dell’arte di vivere a spese altrui in una girandola di continui spostamenti e travestimenti, i fasti drammatici della “miseria infurfantita”.
Certo, a voler essere sottili, dobbiamo ammettere che c’è una bella differenza tra il sopravvivere alla fame vera e il desiderare cibo in abbondanza ma ci dobbiamo rassegnare alla realtà che ci dice che la miseria non conosce confini o differenze etniche, culturali, religiose o di tempi storici.
Il desiderio di cibo in abbondanza affiora anche nell’ultimo libro di cui vorrei parlare, la meravigliosa raccolta di Fiabe e novelle calabresi proposta dall’editore Donzelli in due diverse edizioni, una completa con i testi in lingua originale e una più economica dal titolo Re pepe e il vento magico, recensita sul quotidiano La Stampa da Ernesto Ferrero in questo modo:La fame nera 
Le mense dei ricchi non sono nemmeno immaginabili. Nella fiaba «La lanterna fatata» il protagonista può comandare qualsiasi cosa grazie a un anello fatato, ma ordina un piatto di maccheroni e subito dopo un altro, perché ha ancora fame. In un’altra fiaba tre mendicanti diretti in Spagna si raccontano i loro piatti preferiti: «Un bel piatto di fagioli con la pasta» (il romano), i «ceci con la pasta» (il palermitano), «la pasta con la carne» (il napoletano). Anche le bevute e le mangiate che suggellano molti happy end sono dichiaratamente virtuali, e vengono concluse dallo sconsolato ammonimento di chi sa come quel bendidio sia soltanto raccontabile: «Loro si divertirono con suoni e canti/e noi restiamo a mani vacanti». 
Mangio dunque sono 
La sacralità/regalità del cibo emerge anche da una delle favole più suggestive, quella di Re Pepe. Una reginotta, non trovando un marito di suo gusto, se ne fabbrica uno con le sue mani, impastando per sei mesi un quintale di farina e un quintale di zucchero, e mettendogli un peperoncino a far da bocca. Il consorte-biscotto, tuttavia, non riesce molto vispo e loquace: sembra anzi uno di quegli uomini del Sud che si abbandonano a un’indolenza sciroccosa e rassegnata. Forse un omaggio a tante coraggiose «grandi madri» mediterranee cui tocca fare una doppia parte in commedia, supplendo l’assenza di figure maschili forti.  
Le bizze dei santi 
Naturalmente anche le fiabe intrecciano una gran quantità di motivi, tra cui il tema del partire, della fuga, del viaggio, l’andar spersi per il mondo, alla ricerca di qualcuno, ma soprattutto di un destino migliore. E si veda ancora quanto siano ricorrenti le presenze della Madonna e di San Giuseppe, chiamati a gestire i prodigi che altrove sono appannaggio delle fate; o di strani santi bizzosi e malevoli come gli antichi dèi. I miti classici si mescolano liberamente a una religiosità ruspante, che privilegia il magico e lo stregonesco, come nella storia di Mamma Sibilla, che era stata maestra della Madonna bambina e, invidiosa dell’allieva, s’è ritirata in una caverna dell’Aspromonte.  Una figura non del tutto negativa, con la quale dunque bisognerà continuare a fare i conti. Così come, conclude nel suo bel saggio introduttivo Vito Teti, i calabresi d’oggi sono chiamati a misurarsi con quelle zone d’ombra, con le ossessioni e i fantasmi che le fiabe raccontano così bene: quasi un’autoanalisi o un’autoterapia sociale a costo e a chilometro zero. Perché le fiabe spiegano proprio come lottare (vincere) contro condizioni di partenza sfavorevoli o avverse. Al posto della farina e dello zucchero della reginotta, per impastare l’uomo nuovo occorrono coraggio, immaginazione, pazienza, determinazione. Non solo in Calabria. 
Siamo partiti da EXPO e lì vorrei tornare per concludere, senza alimentare critiche o esaltarne successi ma, più semplicemente, con una suggestione. Ci sono andato su invito di un mio giovane amico che in quel sito sta facendo la sua prima esperienza lavorativa, per la prima volta sta facendo i conti con la soddisfazione data dai primi guadagni e con le contraddizioni che si nascondono dietro i contratti capestro a cui sono costretti tanti ragazzi. Ci sono andato accompagnato dalla sua meravigliosa mamma e da altri due amici che, come me, hanno raggiunto da anni la soglia dei cinquant’anni. Finito il suo turno di lavoro, il giovane ha voluto accompagnare i più attempati ad assistere allo spettacolo fantasmagorico dell’”albero della vita”, l’attrazione più suggestiva delle Esposizione Universale. Ci siamo trovati con il naso all’insù, con la bocca aperta davanti alle meraviglie ipertecnologiche e supersponsorizzate di questo moderno totem, pieno di luci e con una assordante colonna sonora. Anche se non ne ho mai parlato con i miei amici, sono sicuro che quello spettacolo ci abbia riportato alla mente i ricordi delle feste di paese di tanti anni fa, quando veniva installato un palo altissimo, cosparso di grasso, alla cui sommità veniva collocata la ruota di un carro a cui venivano appesi cibi di ogni sorta. Il gioco consisteva nel formare squadre di giovani che con le tecniche più astruse e con fatica inimmaginabile, cercavano di raggiungere la cima del mitico “palo della cuccagna”.
La similitudine era lampante così come lo erano le differenze. Oggi, in questa enorme “festa dei paesi”, avremmo potuto raggiungere senza fatica, se non quella economica a causa dei prezzi o dall’attesa causata dalle lunghe code, ogni cibo di cui avevamo voglia, gustarcelo in santa pace e con buona pace dei milioni di persone che, modestamente, sono costrette a lottare per nutrire se stesse e non l’intero pianeta. La fatica vera è immedesimarsi con coloro che vedono il “nutrirsi” come il lieto fine di una bella favola.   


 
 
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