Ormai al secondo lungometraggio dopo “La mafia uccide solo d’estate”, si incomincia ad individuare uno stile nei films di Pierfrancesco Diliberto. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2016, “In guerra per amore” replica il successo del primo film, presentando con stile leggero e fiabesco un problema che a Pif sta molto a cuore: la Sicilia e la Mafia. Attraverso le vicende personali di Arturo Giammarresi, palermitano immigrato a New York, e la sua storia d’amore con Flora, promessa al nipote di un boss mafioso, si ripercorrono le vicende dello sbarco degli americani in Sicilia nel 1943 e delle ormai dimostrate collusioni con noti mafiosi, associati alla causa e “sdoganati” ufficialmente, in cambio dei loro servigi. Arturo vorrebbe sposare Flora che è assolutamente consenziente, ma è stata promessa dallo zio al figlio del braccio destro di Lucky Luciano. L’unico modo per opporsi alla volontà dello zio e bloccare le nozze non volute, sembra essere quello di ottenere il consenso del padre di Flora, un povero contadino siciliano moribondo. Per farlo, all’ingenuo e spiantato Arturo non resta che arruolarsi nell’esercito americano e giungere in Sicilia con i liberatori. Le vicende che seguono passano più volte dal divertimento al dramma, dal macchiettismo alla denuncia e spesso hanno un carattere del tutto surreale, come l’episodio del volo dell’asino, ma Pif non perde d’occhio, nel raccontarci le piccole storie personali dei vari personaggi, la storia più grande della nascita della Democrazia Cristiana in Sicilia, del passaggio dei mafiosi alla politica, grazie all’aiuto americano, e, alla fine, della denuncia, attraverso documenti rimasti segreti per molti anni ed ora rivelati, di quanto sia stato importante l’intervento americano per riportare saldamente al potere la mafia in Sicilia. Attraverso la citazione dei nomi di personaggi a tutti noti, si evidenziano le collusioni con la mafia americana e in particolare con Lucky Luciano, disponibile ad aiutare con le sue conoscenze lo sbarco e l’accoglienza delle truppe americane in Sicilia, e per questo assai beneficiato in patria da privilegi e sconti di pena. Il finale è amaro, anche se la storia d’amore riuscirà a compiersi (…forse…), ma il film serve a Pif per illustrare un’altra pagina della storia della sua Sicilia e favorirne la comprensione. Girato ad Erice e alle saline di Trapani con addirittura un omaggio ad una celebre foto di guerra di Robert Capa, probabilmente il film è meno riuscito del precedente che rappresentò alla sua uscita una sorpresa originale, ma il regista merita comunque di essere seguito con attenzione e benevolenza, in attesa delle prossime prove.
FRANTZ Francia, Germania 2016Regia: François Ozon Sceneggiatura: François Ozon Fotografia: Pascal Marti
Musiche: Philippe Rombi Interpreti: Paula Beer, Pierre Niney, Ernst Stoetzner, Marie Gruber, Cyrielle Clair, Johan Von Bùlow, Anton Von Lucke
Strano regista e strano film. François Ozon passa indifferentemente dal genere noir (8donne e ½), al film di fantasia (Ricky), alla commedia (Potiche), al film di denuncia (Giovane e bella), a quest’ultimo melodramma, presentato in concorso al festival di Venezia di quest’anno. Strano film, girato in gran parte in uno splendido bianco e nero che solo in alcuni momenti particolari vira al colore, parlato in francese e in tedesco con sottotitoli, ambientato fra Germania e Francia nel 1919, subito dopo la fine della grande guerra. Ripreso da un film del 1932 di Ernst Lubitsch, che a sua volta derivava da un lavoro teatrale di Maurice Rostand scritto nel 1930 ( L’uomo che ho ucciso), serve al regista per approfondire ancora una volta i suoi temi preferiti, il mistero e la menzogna.
Anna, una ragazza tedesca che ha perso il fidanzato in guerra, si reca tutti i giorni a visitare la tomba del promesso sposo, Frantz, che dà il titolo al film. Con sorpresa si accorge però che non è l’unica visitatrice, ma che la tomba è frequentata anche da un giovane, assai compreso e dolente. Da qui parte il racconto, tra curiosità, perplessità, voglia di indagare, di conoscere, anche strana attrazione…
Il ragazzo è un ex soldato francese che racconta di essere stato un amico di Frantz quando questi si trovava a Parigi e pian piano racconta ad Anna particolari sconosciuti della loro vita insieme. Adrien viene presentato anche alla famiglia di Frantz, dapprima ostile e rancorosa, poi sempre più incline ad accogliere lo straniero e ad accettare i suoi racconti consolatori e i suoi commoventi concerti di violino.
A questo punto, tuttavia, si introducono una serie di colpi di scena, di verità rivelate da Adrien solo ad Anna che dovrà sopportare il peso della conoscenza dell’accaduto e assumere su di se il carico di dubbi e decisioni personali assai penose. La storia prosegue infatti in Francia dove Anna, attratta dal giovane e spinta dalla famiglia di Frantz a iniziare una nuova vita, si reca fra mille peripezie, ma altre rivelazioni l’attendono, in un continuo cambio di prospettiva, destabilizzante.
Assai ben descritto, a mio modo di vedere, è l’ambiente del dopoguerra, sia nel paesino di Anna in Germania, sia in Francia, con tutti i problemi di nazionalismo e revanchismo da entrambe le parti, che porteranno inevitabilmente, in breve, alla seconda guerra mondiale. Assai coinvolgente l’atmosfera bucolica tedesca da una parte e, viceversa, il viaggio in treno e l’arrivo nella metropoli di Anna, sola e sperduta, nonché la sua caparbia ricerca di Adrien, come scomparso nel nulla.
Quello che viceversa non mi è sembrato risolto è il continuo cambio di prospettiva, con una serie di menzogne, mezze verità fuorvianti dette o scritte in maniera tale da non riuscire più a distinguere ciò che è accaduto veramente da ciò che è solo immaginato o fatto credere, ma in ogni caso condizionanti il comportamento dei vari personaggi e il loro destino. Forse è proprio questo che voleva suggerire Ozon, ma Anna, il personaggio chiave assai ben recitato da Paula Beer, alla fine della storia riesce a venirne fuori, anche se dolorosamente, e a rimettersi in gioco in una prospettiva di ripartenza e di speranza, osservando un drammatico quadro di Manet al Museo del Louvre. Le vie del Signore sono infinite…
LA VITA POSSIBILE Italia 2016Regia: Ivano De Matteo Sceneggiatura: Valentina Ferlan, Ivano De Matteo Fotografia: Duccio Cimatti
Musiche: Francesco Cerasi Interpreti: Margherita Buy, Valeria Golino, Andrea Pittorino, Caterina Shulha, Bruno Todeschini
Come in un precedente film, “Gli equilibristi”, la scena di esordio, quella violenza inaudita da parte del marito subita da Anna ( Margherita Buy) e vista dal figlio al rientro da scuola, è solo accennata e serve da motore e spunto per tutto il film. Il racconto parte da una storia vera, come racconta il regista, raccolta da lui stesso e dalla sua compagna e riguarda un fenomeno divenuto purtroppo attualissimo e forse addirittura in crescita.
Il tema non è tanto, tuttavia, la violenza subita, ma il dopo, i condizionamenti personali e famigliari, i sensi di colpa, il rapporto con il figlio adolescente. Anna, la protagonista, infatti decide di non poter tollerare più la situazione e si assume la responsabilità di fuggire con il figlio, cercando di non lasciare tracce, di andare via da Roma dove viveva e cercare di intraprendere una nuova esistenza in una città lontana, Torino, approfittando dell’ospitalità di una vecchia amica single, disponibile, affettuosa, generosa,assai confusionaria. I due si installano così nell’appartamentino di Carla ( Valeria Golino), e incominciano faticosamente una nuova esistenza. Il ragazzino tredicenne ( Andrea Pittorino, molto bravo) va a scuola, riceve in regalo da Carla una bici con cui scorazza per Torino giorno e notte, troppo libero e troppo solo. Gli manca la figura del padre, gli mancano gli amici, gli manca il pallone, la televisione. Cerca di stabilire un contatto con una giovane prostituta di cui si invaghisce, forse senza rendersi conto fino in fondo del mestiere che fa, trova un amico nel gestore del ristorante difronte, un ex calciatore francese dal dubbio passato con cui stabilisce una bella complicità, ma è costretto ancora a scontrarsi con episodi di violenza che lo feriscono.
Nel frattempo Anna trova un lavoro come donna delle pulizie, è spesso assente, è costretta ancora a subire attenzioni maschili non desiderate, violenze verbali se non fisiche. Cerca di riemergere dal buio, cerca l’aiuto dello stato, ma la burocrazia è un macigno con cui inevitabilmente ci si scontra. Trova nell’amica Carla un supporto generoso e genuino e soprattutto uno stimolo a non cedere ai tentativi di riconciliazione del marito e ai sensi di colpa. Ma con il figlio piccolo, infelice e arrabbiato, è inevitabile prima o poi lo scontro e la sensazione di fallimento è grossa.
Credo che la bellezza del film, a parte le inquadrature suggestive di una Torino bagnata e autunnale, soprattutto a confronto con il sole lasciato a Roma, sia proprio il suo realismo, semplice e nel contempo problematico, la sua capacità di mostrarci, al di là della retorica della violenza subita e della necessità di reagire, che cosa si può aspettare una donna sola e ferita, anche se dotata di buone capacità intellettuali e forse anche economiche.
Come già evidente nei films precedenti, “Gli equilibristi”, “La bella gente”, “I nostri ragazzi”, De Matteo è interessato alle problematiche delle famiglie contemporanee, in particolare borghesi e un po’ ipocrite, che indaga a fondo con partecipazione, rivelandone conflitti e contraddizioni. Il film è forse un po’ troppo lento, in certi momenti un po’ tirato e insistito, ma coinvolge molto, grazie anche ai bravi protagonisti e si vede sicuramente con sollievo il tardivo finale di riconciliazione tra madre e figlio, di speranza e di ottimismo. Non tutto è risolto, evidentemente, ma la nuova vita è possibile.