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Finalmente. Si lasciò andare sulla nuova sdraio e scoprì che era proprio comoda. Lì, nella quieta ombra del terrazzo, con una bibita ghiacciata sul tavolino, poteva finalmente godersi un po’ di pace, immerso nella frescura, in quel luglio torrido oltre l’inverosimile – il meteo in TV parlava di 47° all’ombra. Guardò verso il sole e vide una macchia scura avvicinarsi. Forse stava arrivando un temporale, che lo avrebbe fatto dormire senza accendere il condizionatore. Certo che era veloce per essere una nuvola. Troppo veloce. E rumorosa. Ormai non distava che qualche centinaia di metri da casa sua e il ronzio era divenuto quasi insopportabile. Locuste! Ecco cos’erano. Locuste. Si alzò di scatto, piegò la sdraio e la porto in casa insieme al bicchiere della bibita, richiudendosi dietro le spalle la zanzariera d’acciaio. Si voltò e si rese subito conto che non avrebbe potuto salvare il tavolino, perché ormai l’esercito più vorace che si conoscesse aveva invaso il terrazzo e oltre al ronzio si sentiva anche il rumore delle terribili mandibole ormai all’opera. Ormai non si accontentavano più delle piante, erano diventate onnivore: legno, plastica, cordami, zanzariere, vestiti e chi più ne ha più ne metta. Era ormai il dodicesimo anno che quella piaga si abbatteva sulla città e finché non partivano verso altri territori era impossibile anche uscire di casa, dopo che nelle ultime due estati sciami di questi terribili insetti avevano assaltato anche delle persone, arrivando persino a far morire dei bambini colti di sorpresa mentre stavano giocando all’aperto. Accese la TV, ma sullo schermo non apparve niente. Controllò la ciabatta: l’interruttore era su ON ma era spenta. Cosa succedeva? Sentendo come degli scoppiettii, guardò fuori e vide milioni di locuste posate sui cavi elettrici, ormai penzolanti dai pali. Non smettevano di morsicare, anche se i loro morsi provocavano scariche elettriche che le uccidevano. Poi le scosse assassine cessarono: probabilmente avevano tranciato un tratto di cavo più a monte, interrompendo il flusso di energia elettrica. Poi un boato terribile lo scosse mentre stava bevendo: un palo della luce si era abbattuto sulla finestra del salone e l’aveva squarciata. Le locuste entrarono come razzi e si scagliarono sul tavolino, sul divano e verso la cucina, dove si trovava in quel momento. Riuscì chiudere la porta prima che invadessero anche quell’ambiente. Una però era riuscita ad entrare e si era posata sul tavolo. Sembrava guardarlo, come un leopardo fissa la sua preda prima di balzare e ghermirla. Doveva stare attento: i morsi della schisti cerca gregaria non erano letali, ma potevano infettare l’organismo umano con conseguenze tremende e a volte, quelle sì, mortali. Prese lo schiacciamosche e la colpì con violenza: niente. Allora aprì il pensile alla sua sinistra e prese la bomboletta del ddt, spruzzandolo sulla schifosa. La quale non fece nemmeno una piega, mentre lui cominciò a tossire violentemente. Ma cos’era quel rumore? Si voltò e vide che ormai il legno della porta era ridotto ad un velo semitrasparente. E mentre fissava con orrore l’esercito delle locuste, la solitaria spiccò il balzo allargando le ali e gli si aggrappò alla guancia con le lunghe zampe e subito lo morsicò. Tentò di staccarla, ma non ci riusciva, mentre il dolore si faceva lancinante e un rivolo di sangue gli colava sul collo. Poi l’ultima sottile barriera di legno schiantò e l’ultima cosa che vide fu un nugolo di locuste che gli si scagliava contro. Cadde a terra. Cinque giorni dopo i vigili del fuoco non trovarono che delle ossa di un bianco lucente, perfettamente pulite. «Eccone un altro». «Già, siamo già a più di cento». E se andarono, attraverso lo scheletro dei pilastri di cemento armato della casa.
II
Dov’era la città? Controllò le coordinate sul suo satphone a energia solare 33° 27′ 0″ N, 9° 1′ 0″ E. La città doveva essere lì. Ma Douz sembrava sparita. Stando alle coordinate doveva trovarsi esattamente in centro, ma non c’era traccia delle case. La sua dromedario intanto picchiava la zampa anteriore destra sul terreno e si lamentava. «Cosa c’è?», chiese Rhissa, ben sapendo che Fakrou non avrebbe mai potuto rispondergli. Aprì GoogleSat e ciò che vide lo lasciò di stucco: la città non c’era più. Ma poco distante una specie di cupola emergeva dalla sabbia, una cupola verde. Prese uno degli otri che pendeva dalla sella e bevve un sorso d’acqua. Poi fece bere anche Fakrou e si incamminò verso la cupola verde. Il satellitare gli mostrava in diretta il suo avvicinamento. La raggiunse in cinque minuti: era proprio una costruzione umana. Cominciò a spostare la sabbia con le mani e a poco a poco capì di cosa si trattava: era una delle cupole della moschea della città.
O almeno lo era stata fino all’anno prima. Ecco dov’era la città: sotto la sabbia. Douz era morta e sepolta. Il rombo di un motore lo scosse dai suoi pensieri. Un fuoristrada con le insegne dell’ONU si stava avvicinando. Rallentò e si fermò vicino a lui. L’autista gli parlò in un arabo scolastico:«Allah sia lodato. Come mai da queste parti?». «Allah sia con te. Ero venuto per rifornirmi d’acqua e cibo, ma a quanto pare i negozi sono chiusi». «Allora non sai niente? Sette mesi fa la più grande tempesta di sabbia ha spazzato via tutte le città da qui fino a Matmata. Non esiste più niente se non sabbia e sale». La notizia cadde sulla sua testa come un macigno. Per un attimo perse l’equilibrio e rischiò di cadere. Poi si riprese. «Allora vi lascio. Bisogna che raggiunga la mia gente prima che si fermi per la notte. Dobbiamo proseguire senza fermarci fino alle colline di Matmata». «Buona fortuna», risposero i militari e ripartirono. Rhissa fece un giro completo su se stesso e non vide che sabbia e sale. Il mondo che aveva conosciuto e che aveva scelto stava scomparendo. Erano già dovuti salire molto a nord rispetto a dieci anni prima e ora anche qui i pascoli, le oasi e ora anche le città stavano scomparendo sotto una coltre di sabbia. Dove sarebbero andati, una volta arrivati a Matmata? Possibile che avrebbe dovuto finire la sua esistenza dentro una casa e che invece del cielo stellato l’ultima cosa che avrebbe visto prima di addormentarsi sarebbero stati un soffitto e delle pareti di mattoni o cemento? Che male aveva fatto per meritarsi ciò? Si pentì subito di questo pensiero: la natura stava spazzando via l’uomo e la colpa era forse dell’uomo, forse dell’evoluzione del pianeta, cosa importava? Risalì in sella: doveva correre più del ghibli e avvisare la sua gente di cambiare direzione. Verso est, verso una vita sconosciuta, fuori dal deserto: ma per quanto? quanto ci avrebbe messo la sabbia a ingoiare le colline di Matmata? Forse la sola speranza che gli restava era di morire e raggiungere Allah nel paradiso preparato per i fedeli dell’Islam. Poi gli apparve davanti agli occhi il volto di sua figlia Fatima e capì che doveva perseverare per lei, doveva sperare in un futuro meno aspro e duro, meno sabbioso. Ma non c’era più tempo per pensare e spronò la sua fedele Fakrou, verso le sagome scure che si stagliavano su una duna davanti al sole che tramontava. E già il vento di nuovo soffiava e la sabbia stava sommergendo la cupola verde.
Il viaggio verso Matmata fu duro, soprattutto per gli uomini, i quali a piedi conducevano i dromedari sui cui dorsi viaggiavano anziani, donne, bambini e merci. La sabbia spinta dal ghibli riusciva a penetrare ovunque e rendeva molto difficile respirare. Fu solo grazie ai satellitari che riuscirono ad arrivare a Matmata. Le colline erano strane, però. Probabilmente era l’effetto della sera combinato con la tempesta di sabbia. Si accamparono fuori dalla città, della quale non riuscivano nemmeno a vedere le luci. Li svegliò il sole del mattino. Il cielo era finalmente limpido e libero dalla sabbia e il sole svelò il disastro: le colline attorno a Matmata erano diventate enormi dune di sabbia e solo pochi tetti emergevano dal mare minerale. Rhissa esplorò la città con altri uomini e scoprì che le case scavate dai berberi sotto terra erano ora colme di sabbia. Non c’era più nessuno. Tornati al campo mangiarono del pain de sable accompagnato da un po’ di latte e poi si rimisero in cammino verso est, in direzione del mare. La strada era lunga e le scorte stavano per finire. Se il tempo fosse rimasto bello forse in un giorno sarebbero arrivati a Mareth. Non sapevano cosa avrebbero trovato, ma non avevano altra scelta che sperare che la città fosse ancora abitata. Anche perché una delle loro donne stava per partorire e forse avrebbe avuto bisogno dell’ospedale.
La popolazione di Mareth stava smobilitando. La città era un caos di autocarri che partivano e arrivavano, sostando solo il tempo necessario perché la gente caricasse il più possibile. Raggiunsero l’ospedale giusto in tempo per il parto, che per grazia di Allah si svolse senza problemi. Rhissa si informò al posto di polizia e seppe che anche Mareth sarebbe stata a breve sommersa dal deserto. Bisognava arrivare al mare attraverso la strada C116 e da Djerba imbarcarsi per il nord del paese, oltre il Grande Palmeto, per avere ancora qualche possibilità di sopravvivenza. La Grande Tempesta si stava solo riposando e presto avrebbe ripreso la sua opera di distruzione. Sarebbe stato meglio precederla. Furono gli ultimi a lasciare Mareth, con i loro dromedari. Molti altri tuareg si erano uniti a loro nei due giorni passati in città. Tutti parlarono di oasi abbandonate e di pozzi senz’acqua. Rhissa si voltò un’ultima volta a guardare il suo mondo perduto e una lacrima scese sotto la tagelmust che gli avvolgeva il capo. E gli tornò in mente l’abdallah dei tuareg Kel Iforas degli Ajjer:
“Lo sai anche tu: una casa, una vera casa di pietra o di mattoni, è come una tomba. Si può anche vivere qualche volta sotto una tenda: ma la cosa migliore per noi è di dormire sotto il cielo e guardare le stelle negli occhi”. E si sentì morire mentre la tagelmust si bagnava come se piovesse.