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La Decisione

La Decisione - Angelo Amboldi Chirurgia 1° Rho - Ernesto Cortazar - Dancing On The Clouds

La vista dal quindicesimo piano è aperta sulla pianura: Alpi a corona e confine, atmosfera tersa, trasparente, in fondo fastidiosa.
Nei decenni molte storie hanno attraversato la mia mente; non così preparata, in fondo, non a tanto danno e a tanto coinvolgimento: sconosciuti, per lo più, ma anche amici, amiche, colleghi, compagni di scuola, di divertimento, di gioco e adesso, adesso anche Roberto, come un fratello, al piano di sotto. Sono certo che sta osservando con piacere tutta questa luce: lui ama il sole, il caldo, gli spazi aperti, il mare, le vette.
Non cerco di immedesimarmi, non lo voglio; sono stato chiaro, gli ho spiegato, gli ho mostrato percentuali e prospettive, ora tocca a lui.
Il punto messo a fuoco dal suo sguardo, un minuscolo punto della pianura, si è lentamente oscurato, per poi espandersi di rimbalzo, fino a divenire una specie di nebbia compatta e granulosa, mossa da vento leggero e uniforme. I doppi vetri delle finestre sono raggiunti da particelle di materia rossastra e appiccicosa, che si addensa a morbide ondate.
Fissa senza emozione l'immane polverone avvolgere ogni cosa, sostituire l'aria stessa e comporre nuvole in multipla sovrapposizione, con leggero e singolare ronzio, appena percettibile.
Le nove meno un quarto del mattino. Gli ho concesso un ulteriore giorno di riflessione.
La tonalità di quella insolita nebbia lascia trasparire, col progressivo oscurarsi del sole, cupi bagliori brunastri. Ne ha percepito la presenza fisica, finché è stato possibile, attraverso il mutamento di costruzioni, viali, alberi, oggetti, posseduti da spessi strati di impalpabile materia sminuzzata. Lui e quella polvere. Divisi da vetri senza impurità. Sta decidendo il proprio futuro, sa che sono al piano superiore e immagina, con tristezza, il mio rammarico.
“Penso troppo. Alessandro pensa troppo”, sussurra ai granelli che si sono impadroniti della lastra esterna, quasi accarezzandone le ombre.
La malattia che lo ha condotto in quella stanza sopra il mondo non è il suo principale pensiero; non più della polvere di mattone disintegrato che intorbida l'aria, troppo densa. Non più del mutamento rapido del mondo esterno, non più delle radiografie e delle immagini arancione del gastroscopio, non più dell'abilità di chi ha scelto le sezioni istologiche migliori e ne ha colorato i vetrini. Niente imbrogli.
“Pensate troppo”, sillaba sottovoce, e sospira. “Siete in grado di prevedere ogni possibile risposta. Anche su faccende importanti. Non posso cambiare le regole ora che stiamo giocando, ora che ho puntato.”La pallina d'avorio è incastrata nella tacca metallica del grande piatto ruotante: gli occhi più esercitati e attenti sono in grado di esprimere un preciso vaticinio.
“Come stai?” chiedo, accarezzandomi leggermente una guancia.
“Bene. Guardo fuori dalla finestra per passare il tempo. Alle undici dovrebbero portarmi una specie di minestra”, mi risponde Roberto.
“Sono le due del pomeriggio.”
“Davvero sono le due?”
“Già”, mi avvicino. “E sul tavolino c'è la tua minestra; fredda.”Quel polverone mi ha distratto. Le due dici? Avrei detto, al massimo, le dieci.”
“Quale polverone?”
“Là fuori. Non l'avete notato dall'ultimo piano? Troppo concentrati sugli interventi?”
“Niente finestre, più che altro. Vediamo questo polverone.”
Le montagne innevate, scolpite in modo quasi stucchevole dalla luce violenta del sole e dall'aria tersa, incorniciano la pianura accecante.
“Lo stai vedendo ora, il polverone?” chiedo sillabando le parole. L’amico mi ascolta assorto e senza distogliere lo sguardo dalla finestra: “Tu no?”
Mi prendi in giro? Se apro ci vorranno due giorni di lavoro per rendere di nuovo presentabile la stanza!”
“D'accordo. D’accordo. Sono stanco, scusa. Non ero venuto a chiedere notizie sul tempo. Hai deciso?”
“Lo sai.”
“Voglio dire se ci hai pensato di nuovo, se hai riconsiderato la possibilità di farti operare: me lo hai promesso.”
“Il tempo passa più velocemente del solito, come vedi; così non mi sono ancora concentrato sul problema. Lo farò, non dubitare.”
“Entro questa sera.”
“Certo, entro questa sera.”
“Ciao”, esco dalla stanza, sono a disagio. Riapro la porta, torno: “Un bel polverone lo ha fatto sicuramente la Torre di Pavia. Ma direi che siamo a distanza di sicurezza, ti pare?”
“Come?” Roberto allontana lo sguardo dal mondo esterno e mi fissa con sguardo interrogativo e severo; quasi cattivo.
Il candore della stanza numero 607.
“E' crollata la Torre di piazza del Duomo a Pavia, questa mattina. Una specie di collasso strutturale. I mattoni non hanno retto. Non hai sentito la radio?” gli spiego.
“Non voglio privilegi, d'accordo, ma nemmeno diavolerie psicologiche. Cosa stai tentando?”
“E' crollata la Torre medievale che stava appoggiata al Duomo della nostra Pavia, giuro, ne parlano tutti. Punto.”
“Chi ne parla?”
“Senti, non è la giornata giusta, lo capisco. Non ti volevo infastidire. Concentrati sulla risposta che devi dare, dimentica quello che ho appena detto.” Mi è difficile articolare altre parole mentre osservo, con sofferenza estrema, uno sgomento del tutto nuovo sul volto dell'amico.
Mattoni rossi polverizzati.
L'auto è lanciata, Milano è lontana. Le cifre verde luminescente dell'orologio segnano le tre.
“Che inverno perduto: niente freddo, niente nuvole, niente nebbia, niente neve, niente brina. Sembra succedere tutto adesso. Maledizione anche agli amici: o si preoccupano troppo o non capiscono un accidente. All'inferno, Alessandro: augurati di aver detto una delle tue famose palle!”Roberto lascia l'auto malamente di traverso davanti al Castello, infischiandosene del vigile vicino che, comunque, sembra avere altri pensieri. L'importante è correre verso piazza del Duomo, senza esagerare, senza sembrare un matto. Cartelli scritti a mano, sbarramenti provvisori, persone in tuta e con piccoli caschi, automezzi a luci lampeggianti, uno strano silenzio; l'eco di un frastuono lontano, meccanico, di metallo e sasso.
Corre a ridosso dei cortili dell'Università: pochi studenti. Troppo pochi. Attraversa la strada vicino alla pasticceria, lo respingono, gli fanno allargare il giro. Lo bloccano. Arriva per vie indirette al Corso. Lo bloccano ancora. Scende per Strada Nuova, quasi fino al Ponte Coperto, allarga più che può il tentativo di aggiramento. Ora percorre vie strette, tra muri di mattoni disgregati; sembrano tutte uguali. Non per lui, che ne conosce ogni dettaglio, sotto ogni tipo di luce; è li la sua Pavia. Lì. Al Castello. In piazza del Duomo.
Ma piazza del Duomo è sfigurata, offuscata, straziata da pale meccaniche e da enormi automezzi che sconnettono i porfidi; il cielo, ingrigito dai riflessi dell'incredibile crollo, ricalca i lunghi gradini deturpati e violati. Due degli accessi sono scomparsi, il porticato manda stridori d'incubo, ogni dettaglio è mutato. Non è piazza del Duomo, e non è suo il corpo che lo ha tradito, colpito, atterrito, indebolito, fiaccato.“Sto bene, davvero, sono forte e mi rifarò, abbiate pazienza. Non portate via le macerie in questa maniera volgare, risparmiate qualche dettaglio, qualche agglomerato, qualche scolpitura, qualcosa, perDio, è parte di noi, della nostra mente. E' parte del nostro organismo. Fate attenzione!” Roberto è inchiodato contro una sporgenza, l'hanno già scrollato due volte, urtato, spinto ad andarsene. Ma non vogliono lui, che muove appena le labbra, che non sa costruire parole avvertibili, che fissa una campana di bronzo profanata contro un gradone.
“Va bene, prometto di decidere! Lasciate stare la povera torre precipitata, non disperdetene i resti a quel modo, smettetela! Risparmiate la sua storia di mille anni, i frammenti delle nostre rappresentazioni, gli echi dei passi e l’ombra delle memorie!” declama ad alta voce, facendo trasalire due pompieri dallo sguardo duro e ostile, e spaventando due vecchie con addosso il grembiule di casa.
Non c'è tregua: mulinelli di polvere rossastra e quinte di pulviscolo compatto velano e confondono i particolari; ogni cosa è camuffata ed estraniata. La metamorfosi del suo organismo e la maledizione secolare collimano in attimi irripetibili, con precisione sovrumana: la disposizione dello straordinario mucchio di macerie mostra l'orrido calco dell'anarchia cellulare di un corpo in cartapesta rifinita.
E' troppo. Non gli rimane che fuggire. Corre via senza paura di sembrare un folle, risalendo a zigzag la strada verso il Castello. L'auto è aperta e ha le chiavi già inserite: basta ruotarle un poco per allontanarsi da quella rovina.
Mi ha promesso una risposta entro sera e, dopotutto, la faccenda è piuttosto importante: un problema ancora più grande e altrettanto diabolico.
Pensieri scoordinati lo costringono alle lacrime, a ridere in modo innaturale, a singhiozzi. Il pallore del proprio volto riflesso nello specchietto retrovisore. La pelle trasparente delle mani, la debolezza della presa.
“Proprio oggi e con il mio migliore amico: bella prova di disciplina!”
“Ma dottore, abbiamo concesso tanta libertà appunto perché è suo amico!”
“Scuse! Non andava lasciato senza controllo!”
E’ stato per poco tempo...”
“Tre ore! E questa mattina?”
“Ha ricevuto le solite attenzioni; io stessa sono entrata più volte.”
“E lui cosa ha detto?”
“Detto?”
“Sì detto, detto: che risposte ha ottenuto dal paziente!”
“Ma... veramente... risposte...”
“Già, è un mio amico... quindi avete rispettato il suo silenzio... Faceva qualcosa di particolare?”
“Non mi pare. Stava appoggiato alla finestra, sembrava molto attento al mondo esterno.” La caposala si avvicina alla finestra: “Ecco, così.”
“Tutte le volte?”
“S... ì, tutte le volte.”
“Normale, no?”
“Ma dottore!”
Dottore un accidente, ritorni ai suoi doveri e...”
“Un momento... aspetti... eccolo!” esclama la caposala, indicando il giardino.
“Dove?” mi avvicino alla finestra; localizzo subito, giù in basso, la sagoma dell'auto di Roberto e qualcuno che se ne allontana lentamente: “Lei è fortunata.”
In ascensore ho il tempo di calmarmi, di dominare una straordinaria agitazione. La porta scorre, rivelando la sagoma di Roberto e la sua espressione assorta ma tranquilla, che muta rapidamente in sorriso: “Ciao Alessandro, stai andando a casa? Guarda che ti devo comunicare la mia decisione, ricordi?”
“Brutto... ”
Ehi, sono il tuo paziente più grave. Ho fatto due passi. E' il mio sistema di concentrazione, lo sai.”
“Dunque si è trattato di concentrazione. Avanti, sali nel mio studio. Tu sei matto!”
Il grande piatto coi numeri colorati è immobile. La sferetta d'avorio è imprigionata sullo zero. Non ci sono respiri affannati o grida; i giocatori se ne sono andati.
“Allora?”
“Dimmi di nuovo le possibilità.”
“Le conosci. Non è il tempo né la sede per bluffare.”
“Voglio essere un vero paziente. Fingi di non conoscermi e che non abbiamo mai lavorato insieme.”
“Ti va una descrizione di tecnica chirurgica, collega?”
“Risparmiala.”
“D’abitudine esordisco con degli schemi operatori.”
“Ho presente quegli schemi. Una mia prerogativa.”
“Qualcosa mi hai insegnato.”
“Perché soltanto due possibilità?”
“Non ce ne sono altre.”
“Allora le riduco a una: mi faccio operare, da te, e solo se asporterai ogni tessuto che non ti piace, senza costruire artefatti esterni.”
“Che bel discorso... “
“Prova tutto quello che ti viene in mente; considerami la cavia che tutti vorrebbero avere. So che non hai paura della fatica. Prendi tutto il tempo che ti occorre.”
“Potrebbe non essere solo una questione di tempo.”
“Sarà un tuo problema. Io starò sognando altre vicende, altre situazioni, altri scenari. E se non è proprio possibile, concedimi comunque giorni normali.”
“Bel discorso professionale!”
“Va bene? Altrimenti risalgo in auto e me ne vado.”
“Non posso fare quello che mi chiedi, Roberto. Cosa decidi, dunque?”
Non c’è il minimo rumore. Il buio, fuori, è attenuato da milioni di piccole luci elettriche e stelle appena tremolanti. Fredda umidità addensata dagli eventi e dalla stagione dà luogo a tenui fosforescenze; l'aria non oppone resistenza; la polvere si è posata.
“Dunque?”

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