“Tanto han gridato all’apocalisse che essa non verrà.
E anche se venisse, del resto,
ci vorrebbe del bello e del buono 
a distinguerla dalla sorte quotidiana
riservata all’individuo come alla comunità.”
Raoul Vaneigem
Solo il caso, e il cronico ritardo con cui consegno i miei articoli alla redazione del Giornalino (che fa infuriare il nostro direttore), mi ha portato a scrivere queste righe mentre ancora si stanno piangendo le vittime e si stanno contando i danni della devastante alluvione che ha colpito la Sardegna nord-occidentale. Mentre scrivo, le polemiche infuriano…
In un ipocrita gioco al massacro, tutti sono colpevoli e, contemporaneamente, tutti sono innocenti. Inevitabilità e prevedibilità sono i confini su cui si scontrano innocentisti e colpevolisti, sono i confini su cui danzano il loro macabro balletto gli eterni esperti nel trovare responsabilità altrui e mai ad indicare le proprie. Così, non è un caso che le uniche voci capaci di elevarsi al di sopra della mediocrità sono quelle di due scrittori sardi, Marcello Fois e Michela Murgia, che con onestà intellettuale, cosa più unica che rara, denunciano in maniera forte e chiara l’atteggiamento passivo di tutti coloro che hanno accettato la cementificazione di un territorio paesaggisticamente meraviglioso, l’abitudine alla rassegnazione di un popolo ricco di storia ma povero di memoria. Sia Fois che la Murgia, proprio della storia che si fa memoria, hanno riempito i loro meravigliosi romanzi e che insieme a quelli di Salvatore Niffoi, di Milena Agus, di Salvatore Soriga e di tanti altri giovani scrittori sardi ci possono aiutare a non lasciare andare alla deriva, a non sprofondare sotto il peso di una crisi economica e sociale l’Isola dei Nuraghi offesa dai luoghi del gossip vacanziero dei potenti di turno. Acqua, storia e memoria sono gli argomenti che caratterizzano anche il primo libro di cui vorrei consigliare la lettura: “Acqua che porta via” scritto da Fabrizio Canciani e pubblicato da Todaro Editore. Fabrizio Canciani, scrittore, artista del teatro canzone, cantautore, autore, vive a Pogliano Milanese e, come dice di se stesso, “è nato sulla sponda desta dell’Olona”. “Questo racconto vuole essere un omaggio ad un fiume tanto bistrattato ma che non muore mai”, ed è proprio la sopravvivenza dell’Olona, il suo plurisecolare rapporto con le comunità umane che hanno vissuto lungo le sue sponde, l’oltraggio continuo che ha dovuto subire e che ha accompagnato il mutare delle forme della produzione nei secoli, il suo essere vero e proprio “strumento” nelle mani della bestia più feroce che esista in natura: l’uomo, che fa da sottofondo rumoroso a questo bel libro.
Non vorrei confondere le idee, il libro di Fabrizio Canciani non è un saggio ambientalista, è un bellissimo libro giallo, con tutti gli ingredienti del genere, con i quali il nostro autore ha saputo, già in passato, dare prova di essere esperto costruttore di storie. In estrema sintesi, la trama di “Acqua che porta via” è questa:“Il cadavere di un professore viene trovato nel fiume Olona, la prima ad occuparsene è Paola Martini, comandante della Polizia Municipale, bella come una top model e determinata come un panzer, anche se poi deve cedere le indagini ai Carabinieri di zona. Lei però continua a seguire il caso, aiutata (si fa per dire) dal vecchio amico ed ex amante Bruno Kernel, detective per necessità più che per vocazione. La storia mette a confronto due epoche: oggi e il 1919, quando un’epidemia di carbonchio causò numerose morti tra animali e persone. E anche quella volta il fiume, e il suo inquinamento, sembravano essere in parte responsabili dei decessi. D’altronde, come osserva uno dei personaggi del romanzo: “Ogni posto ha il fiume che si merita”.” A chi ha amato e continua ad amare Fabrizio De Andrè non sarà certo sfuggito che il titolo del libro è tratto dalla sua canzone “Dolcenera” che ha come sottofondo l’alluvione di Genova avvenuta nel 1972. Da questa canzone e da altre del cantautore genovese sono tratti i titoli di diversi capitoli. Una ragione in più per consigliare ed apprezzare questo libro che quando uscì fu accompagnato da una falsa locandina di “Settegiorni” che “stillava” di un morto ritrovato sulle sponde dell’Olona. La locandina fu esposta in tutte le edicole di Pogliano Milanese dove il libro si può ancora acquistare e dove verrà presentato il 13 dicembre nell’aula Consigliare del Palazzo Comunale.
Questo numero del Giornalino uscirà in prossimità delle feste natalizie, momento dell’anno in cui, ci dicono le statistiche, si comprano, si regalano e, speriamo si leggano, il maggior numero di libri, ragione per cui ne segnalerò almeno altri tre. Naturalmente, per rimanere fedele alla “tradizione” di questa rubrica, non segnalerò best-seller, non segnalerò libri che vendono quantità esorbitanti di copie, non segnalerò per pudore e per realismo libri che di tutto hanno bisogno per essere conosciuti tranne che di poche righe pubblicate dal Giornalino realizzato con i pochi mezzi a disposizione da un CRAL aziendale. A proposito di CRAL, volete un consiglio? Non prendete impegni per il prossimo 27 gennaio perché il CRAL vi sorprenderà. Correndo il rischio di “scivolare” su di una battuta di bassa lega, vorrei ricordare che il 27 gennaio ricorre il “giorno della memoria”, quel momento, cioè, che ci dovrebbe spingere a riflettere sull’orrore della deportazione e dello sterminio nei campi di concentramento nazisti. Come è giusto che sia, nei sette decenni che ci separano da quegli anni bui sono stati pubblicati moltissimi libri, diari, lettere, romanzi e saggi che hanno avuto il merito di restituire voce a chi l’ha perduta dentro i forni crematori, dentro le camere a gas, davanti a plotoni di esecuzione, nei lugubri luoghi di tortura, nelle prigioni di chi si è trovato sotto il tallone di ferro di una delle più sconvolgenti macchine di morte che l’uomo sia mai riuscito ad ideare e a mettere in pratica. Proprio a partire da uno di questi preziosi documenti, il diario di Etty Hillesum, giovane donna ebrea olandese morta ad Aushwitz nel 1943, il nostro CRAL proporrà la messa in scena di uno spettacolo che alternerà musica a lettura di brani. Non svoglio svelare altro, tutte le informazioni verranno diffuse a tempo debito… Mi sembra utile, invece, consigliare a tutti coloro che vorranno arrivare preparati all’appuntamento la lettura del Diario di Etty Hellisum, pubblicato da Adelphi per la prima volta nel 1985 e ristampato nel 2012 con questa presentazione: all’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella indifferenza. Ma la lettura del Diario risulterebbe monca se non accompagnata da quella delle Lettere che sempre Adelphi ha mandato in stampa proprio quest’anno e che presenta in questo modo: Il Diario di Etty Hillesum ha commosso i lettori di tutto il mondo, ed è ormai considerato fra le testimonianze più alte delle vittime della persecuzione nazista. Ora la versione integrale delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork – dove Etty andò di sua spontanea volontà, per portare soccorso e amore agli internati, e per «aiutare Dio» a non morire in loro –, ci permette di udire la sua voce fino all'ul¬timo, fino alla cartolina gettata dal vagone merci che la conduce ad Auschwitz: «Ab¬biamo lasciato il campo cantando». A Wes¬terbork Etty vive «l'inferno degli altri», senza «illusioni eroiche», recando parole vere là dove il linguaggio è degradato a gergo, là dove i fossati del rancore dividono gli stessi prigionieri, contrapponendo ebrei olandesi a ebrei tedeschi. La resistenza al male si compie in lei attraverso l'amicizia – nata nel campo o mantenuta viva con chi è rimasto libero e manda viveri e lettere –, attraverso la fede e grazie ai libri (come le poesie di Rilke) e alla natura: anche sopra le baracche corrono le nuvole e volano i gabbiani e brilla l'Orsa Maggiore. Per scrivere la storia del lager ci sarebbe voluto un poeta, non bastava la nuda cronaca, aveva detto un giorno un internato a Etty. Non sapeva che quel poema stava già prendendo forma, lettera dopo lettera. E che, da quel fazzoletto di brughiera recintata e battuta da turbini di sabbia, sarebbe giunto fi¬no a noi rompendo un silenzio di decenni. L’ultimo consiglio di lettura non si discosta dai due precedenti ma, se possibile, è ancora più drammatico. Si tratta di un romanzo russo scritto negli anni cinquanta del novecento ma che conserva il respiro dei grandi scrittori ottocenteschi di quel paese. E’ un romanzo che somiglia molto ad un reportage, una lucida cronaca della guerra, della fame, della morte e della micidiale abitudine a raccontare bugie clamorose, utili a mascherare la realtà, che, sempre, chi detiene il potere, mascherato da qualsiasi ideologia, è disposto a mettere in campo per alterare la realtà e piegarla alle proprie brame. Il romanzo, dal titolo Vita e destino, è stato scritto da Vasilij Grossman e, non è un caso, è stato pubblicato anch’esso da Adelphi. «Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni...» scriveva nel 1960 Vasilij Grossman, scrittore noto in patria sin dagli anni Trenta (e fra i primi corrispondenti di guerra a entrare, al seguito dell’Armata Rossa, nell’inferno di Treblinka). Non sapeva, Grossman, che in quel momento il manoscritto della sua immensa epopea (che aveva la dichiarata ambizione di essere il Guerra e pace del Novecento) era già all’esame del Comitato centrale. Tant’è che nel febbraio del 1961 due agenti del KGB confischeranno non solo il manoscritto, ma anche le carte carbone e le minute, e perfino i nastri della macchina per scrivere: del «grande romanzo» non deve rimanere traccia. Gli occhiuti burocrati sovietici hanno intuito subito quanto fosse temibile per il regime un libro come Vita e Destino: forse più ancora del Dottor Živago. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male (attraverso le vicende di un gran numero di personaggi in un modo o nell’altro collegati fra loro, e in mezzo ai quali incontriamo vittime e carnefici, eroi e traditori, idealisti e leccapiedi – fino ai due massimi protagonisti storici, Hitler e Stalin) Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue sublimi esigenze. «Libri come Vita e destino» ha scritto George Steiner «eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio».