«Se avete fame guardate lontano, se avete sete la tazza alla mano, […] che ci rinfresca la neve ci sarà», così recitano alcuni versi di una delle più famose canzoni della Prima guerra mondiale, Monte Canino, che rievoca la chiamata alle armi e descrive le estreme condizioni della vita in trincea e la fame patita, nell’estenuante guerra di posizione.Le privazioni e la fame non furono riservate solo alle truppe mandate a combattere: l'alimentazione durante la Grande Guerra fu un problema rilevante anche per la popolazione civile.A esacerbare la situazione, nell’inverno 1916-1917, contribuì il blocco sottomarino tedesco che ostacolò il traffico navale alleato.
Burro, zucchero e petrolio cominciarono a scarseggiare e i residenti nelle zone di guerra ne pagarono le conseguenze con un aumento della mortalità.
Inoltre, dopo la disfatta di Caporetto, nei territori del Friuli e del Veneto orientale, gli abitanti dovettero sopportare le razzie di un esercito di occupazione affamato.
Tra il giugno del 1915 e il settembre del 1917 si combatterono lungo il fronte dell’Isonzo ben 11 battaglie: nell’alto e medio Isonzo e nel Carso.
Dopo un breve addestramento e con un equipaggiamento insufficiente, i soldati venivano inviati nei territori di guerra a sacrificare, offensiva dopo offensiva, le loro giovani vite nei ripetuti assalti alle linee nemiche, ben protette dai reticolati e dal fuoco delle mitragliatrici.
Di fronte alle difficoltà quotidiane, ai sacrifici richiesti e agli scontri frontali che lasciavano sul terreno i compagni, l’inevitabile e umana protesta dei soldati, non era permessa né accettata: ai combattenti si chiedeva obbedienza e disciplina, senza dar ragione dei motivi che avevano condotto l’Italia all’intervento.
I segni di stanchezza o irrequietezza venivano puniti secondo il codice militare che prevedeva la fucilazione.
Dopo i primi combattimenti, avvenuti in campo aperto, il conflitto si trasformò in guerra di posizione e di logoramento, guerra di trincea.
Nelle aree impervie del fronte, nelle zone di montagna e nelle alte quote i militi ebbero come nemico non solo l’esercito austro-ungarico, ma anche le dure condizioni ambientali: freddo, neve, ghiaccio, tormenta e lontananza dai rifornimenti.
Nelle trincee, prive di servizi e invase da una mescolanza di cose abbandonate, da rifiuti, e da cadaveri, che nessuno poteva rimuovere, i soldati mangiavano quando arrivava il rancio e dormivano quando i pidocchi glielo consentivano, costretti sulla nuda terra, spesso intrisa d’acqua, senza coperte, colpiti dalle infezioni intestinali, dai reumatismi e dalle affezioni bronchiali, in attesa del grido di guerra, “Avanti Savoia!”.
I pasti si cucinavano nelle retrovie e venivano trasportati durante la notte nella linee avanzate.
Un modo per portare a destinazione gli alimenti erano le casse di cottura, casse di legno foderate di materiale coibente, in cui si riponevano marmitta e fornello bollenti.
Sia la marmitta che la cassa venivano quindi chiuse ermeticamente, mentre la cottura si completava da sola durante il viaggio.
In montagna, le casse venivano caricate sui muli; ogni animale ne poteva portare due.
Quando lo spostamento con i muli risultava difficile si ricorreva agli addetti alla sussistenza che usavano contenitori termicamente isolati, adatti al trasporto a spalla.
I portatori, in alcuni casi, furono anche donne (si ricordano le portatrici carniche che operarono, volontariamente, lungo il fronte della Carnia) che, nelle loro gerle, oltre al cibo, riponevano armi, munizioni e materiale bellico.Il rancio arrivava a destinazione spesso in ritardo e talvolta non arrivava che a distanza di giorni, deprimendo il fisico e lo spirito dei militari, che ricevevano un cibo ghiacciato e poco nutriente o che dovevano continuare a combattere, sopportando i morsi della fame.
L’acqua potabile, bene prezioso, era scarsa e spesso inquinata.Il vino era previsto nella dose giornaliera di un quarto di litro, ma il suo consumo fu molto
superiore.Buona parte della paga percepita dai soldati finiva infatti nell’acquisto di altro vino.
Alle truppe erano inoltre riservate razioni mensili di liquori che aumentavano nell’imminenza degli assalti.
La scarsa qualità del cibo veniva compensata dalla quantità, superiore al rancio austroungarico, molto più esiguo.
Tuttavia, la miseria tra i mobilitati delle classi più povere in molti casi era tale che la dieta militare risultava più ricca rispetto alla loro alimentazione abituale.
Per coloro che stavano in prima linea la gavetta era leggermente più grande.
Prima degli assalti la quantità del rancio era anche più consistente: si aggiungevano gallette, scatole di carne, cioccolato, frutta candita, e soprattutto liquori.
Un mezzo per riscaldare il cibo semicongelato era costituito dagli scaldaranci, cilindretti di carta avvolta e pressata, imbevuti di paraffina.
Una volta accesi, gli scaldaranci sviluppavano calore senza fiamma per circa 15 minuti (buona parte della loro produzione veniva garantita dai Comitati di assistenza del cosiddetto fronte interno).Lo scaldarancio era dotato di un fornelletto in filo di ferro la cui costruzione era sempre dovuta al volontariato.
Allo scoppio del conflitto le industrie alimentari trovarono nuovo terreno fertile nella produzione dei cibi conservati in scatola. Le scatole di latta per alimenti destinate all’esercito erano decorate con figure inneggianti alla patria e motti propagandistici, tesi a spiegare lo sforzo bellico o a riproporre il grido di guerra che chiamava all’assalto.Ancora oggi nei musei sono conservati i diversi contenitori di metallo che custodivano carne, alici sott'olio e frutta candita.
Ma non solo, lungo le trincee dell’ampio fronte, dal Carso all’Ortigara, si vedono ancora molte scatole di latta abbandonate sul terreno.
Qualche volta, soprattutto in occasione delle festività, come nella ricorrenza del Natale, le ostilità venivano sospese per una sorta di tacita convenzione e, in quelle circostanze, avvenivano episodiche manifestazioni di “fraternizzazione”: i soldati uscivano dalle trincee, si scambiavano auguri e doni, per poi tornare ognuno sulle proprie posizioni e ricominciare a sparare.Il fenomeno preoccupò gli alti comandi, tanto che furono emanate severissime disposizioni per proibirlo.
Il 24 ottobre 1917 le truppe austro-ungariche, con l’aiuto tedesco, aprirono il fuoco su un ampio fronte.
Le linee difensive, ridotte in condizioni pietose, non seppero reggere all’urto e, nel corso della notte, tra il 24 e il 25 ottobre, gli italiani batterono in ritirata, verso il Tagliamento, dove Cadorna intendeva allestire una linea di resistenza.
Le armate della Triplice conquistarono i due lati dell’Isonzo, facendo una grande quantità di prigionieri.
Più di mezzo milione di uomini lasciarono le posizioni che avevano tenuto con grande sforzo e fuggirono verso ovest, sbarazzandosi di frequente dei loro fucili. Il fronte dell’Isonzo, costato tante durissime battaglie e tante, tante vite, cessava di esistere.
Nella ritirata il cibo veniva distribuito con parsimonia, l’indispensabile per andare avanti e
sopravvivere. In seguito alla disfatta di Caporetto, 8 novembre 1917, il generale Armando Diaz fu chiamato, a sostituire Luigi Cadorna (l’uomo che non badava ai bisogni più elementari dei combattenti) nella carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano.
Con la nomina di Diaz, le condizioni di vita cambiarono.
Nel dicembre del 1917, le razioni vennero aumentate e il vitto divenne più vario.
Le paghe dei soldati ebbero un incremento e negli spacci allestiti nei paesi del fronte essi poterono acquistare viveri e generi di prima necessità.
Da quella data non ci furono più decimazioni e venne posta maggiore attenzione al morale delle truppe, provvedendo che ogni armata avesse il suo giornale, con incluso un angolo umoristico, scritto possibilmente dai militi stessi.
Nei territori occupati dall’esercito austro-ungarico, nel gennaio del 1918, vi fu una prima ondata di saccheggi e spoliazioni, a cui seguirono le requisizioni che tolsero ai civili tutte le riserve alimentari.Prima fu confiscato il bestiame e poi vennero sequestrati le verdure, le noci, il vino e l’olio e infine il foraggio secco.
Già nel mese di febbraio non c’era più nulla da requisire; furono allora confiscati i tessuti, il cuoio, gli abiti e quanto poteva essere utile.
La popolazione per sopravvivere dovette ricorrere agli ortaggi e persino alle erbe selvatiche, alle foglie degli alberi, a farine ricavate dai gusci secchi dei fagioli o dai torsoli delle pannocchie del granoturco.
In primavera l’occupazione fece sentire i suoi effetti e la malnutrizione divenne grave e comune a civili e a militari.
Tra i residenti vi fu un’impennata nei decessi, mentre al fronte, alla fine di aprile, gli uomini erano stremati dall’inedia.
Scarseggiava il pane e la polenta, e la carne era praticamente quasi scomparsa.
Per sopperire alla mancanza di cibo i soldati rubavano i tagli migliori dei cavalli uccisi in battaglia.
Tuttavia, nel giugno 1918, l’esercito riuscì a garantire un aumento delle razioni, al fine di sorreggere maggiormente lo spirito dei combattenti nell’imminenza della controffensiva d’autunno.Morirono d’inedia, di malattie e di freddo anche un gran numero di prigionieri di guerra italiani.
Per sostenere i reclusi oltre confine, il governo di Roma non organizzò i soccorsi adeguati, nella convinzione che le notizie sulla fame, che si pativa in prigionia, avrebbero scoraggiato le tanto temute diserzioni.
A peggiorare le condizioni di detenzione si aggiunsero le difficoltà alimentari dovute al blocco navale imposto dall’Intesa contro Germania e Austria, che, via via, colpirono in modo pesante la generalità della popolazione e, ovviamente, quanti si trovavano nei campi di concentramento.
Le razioni erano molto scadenti, caffè d’orzo, minestre, poco pane o patate, fornendo un livello di calorie considerevolmente inferiore a quanto sarebbe stato necessario per sopravvivere in luoghi a basse temperature.
Nello stato di prostrazione dei detenuti risultava essenziale l’invio dei pacchi dalle famiglie, pacchi che, tuttavia, spesso non giungevano a destinazione o arrivavano manomessi e depredati.Gli aiuti privati non potevano comunque alleviare realmente la situazione dei soldati, come invece sarebbe stato in grado di fare il governo italiano.
Delle necessità dei prigionieri se ne resero conto le principali potenze dell’Intesa che strinsero opportuni accordi con gli imperi centrali.
«Le autorità italiane (in primo luogo il ministro Orlando) proibirono dunque e ostacolarono
in ogni modo la pratica degli aiuti organizzati, e solo sul finire del conflitto avviarono un esperimento in questo senso.
Tale condotta ebbe risultati disastrosi.Dei 600.000 prigionieri circa 100.000 non tornarono più, la maggior parte dei quali morti di tubercolosi, di stenti e di fame.» (Gibelli, p. 131).L'esercito austro-ungarico, stremato, iniziò il 15 giugno la sua offensiva, ma le linee italiane seppero resistere all'assalto e infliggere pesanti perdite.
Il 26ottobre, da Vittorio Veneto partì l'attacco che poneva fine alla guerra sul fronte italiano.
Alcuni riferimenti bibliografici
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Milano, Mursia, 1994.
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